Lo smaltimento dei rifiuti

Lo smaltimento dei rifiuti in Italia

Lo smaltimento dei rifiuti in Italia è stato regolato organicamente dal DPR 915 del 10 settembre 1982, emanato in attuazione delle direttive CEE n. 75/442 (relativa ai rifiuti pericolosi), n. 76/403 (relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili) e n. 78/319 (relativa ai rifiuti in generale). Il DPR 915/82 è un dispositivo “quadro” nel quale sono affermati:

  • i principi generali da osservare;
  • la classificazione dei rifiuti;
  • le competenze attribuite allo Stato (indirizzo e coordinamento), alle Regioni (pianificazione, rilascio autorizzazioni, catasto rifiuti ed emanazione di norme specifiche), alle Province (controllo) ed ai Comuni (smaltimento dei rifiuti solidi urbani);
  • i criteri generali di regolamentazione dell’attività di smaltimento dei rifiuti;
  • le disposizioni fiscali, finanziarie e sanzionatorie.

Il  sistema  introdotto  da  tale Decreto  si  fondava  sulla  gestione  del  rifiuto  mediante l’attività  di eliminazione dello stesso senza valorizzarne la possibilità di riutilizzo e riciclo.
Con il D. Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (il cosiddetto “Decreto Ronchi”) recante disposizione in attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio, il legislatore, prendendo le mosse dall’esigenza di attuare nel nostro ordinamento giuridico le nuove direttive europee, ha tentato un  riordino dell’intera normativa.
Il D.Lgs. 22/1997 sembra fondarsi su due principi di ordine generale.
In primo luogo vieta a chiunque detenga rifiuti di abbandonarli,  imponendo  di provvedere  al loro smaltimento o recupero nelle varie forme previste dal decreto stesso a seconda del tipo di detentore.
In secondo luogo il Decreto, dopo aver ribadito che la gestione dei rifiuti costituisce attività  di pubblico interesse, si preoccupa di indicare la priorità della riduzione della quantità e pericolosità dei rifiuti prodotti e del loro recupero, riutilizzo e riciclaggio, rispetto allo smaltimento.

Definizione e classificazione dei rifiuti

Col termine “rifiuto” si definisce “qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi” (Art.6 D.Lgs. 22/97).
Pertanto, col termine “rifiuto” si fa generale riferimento ai cosiddetti “rifiuti solidi” cui si aggiungono anche particolari tipologie di “rifiuti liquidi” (in genere liquidi concentrati di origine industriale) non recapitati in fognature dotate di depuratore terminale, ma trasportati agli impianti di smaltimento CQO modalità analoghe ai rifiuti solidi (trasporto stradale, ferroviario, marittimo).
I rifiuti così definiti possono essere classificati in  3 distinte categorie:

Rifiuti solidi urbani (RSU)

Si definiscono rifiuti urbani quei rifiuti che, anche se ingombranti, provengono da abitazioni; inoltre sono compresi i rifiuti di qualunque natura o provenienza, giacenti  sulle strade ed aree pubbliche  o sulle strade ed aree private comunque soggette ad uso pubblico o sulle spiagge marittime e lacuali e sulle rive  dei corsi d’acqua;  i rifiuti  vegetali  provenienti  da aree verdi,  quali giardini,  parchi  e aree cimiteriali; i rifiuti provenienti  da esumazioni  ed estumulazioni,  nonché gli altri rifiuti provenienti  da attività  cimiteriale.
Vi sono poi tipologie di rifiuti derivanti da attività commerciali, artigianali ed industriali che hanno caratteristiche simili ai RSU o loro componenti (ad es. materiali di imballaggio, ritagli  di tessuti, gomma, scarti dell’industria alimentare, scarti di legno, scarti di materiali di arredamento ecc.). Sono detti “Rifiuti assimilabili ai RSU” e come tali vengono di norma smaltiti negli stessi impianti.

Rifiuti speciali (RS)

Comprendono soprattutto la vasta categoria dei rifiuti industriali, artigianali, agricoli e commerciali. In aggiunta sono considerati rifiuti speciali i seguenti:

  • rifiuti composti da materiali da costruzione, demolizione e scavo;
  • veicoli e macchinari obsoleti;
  • rifiuti prodotti da ospedali e case di cura;
  • residui derivanti dal trattamento di rifiuti solidi urbani (scorie di incenerimento, residui degli impianti di riciclaggio) e dal trattamento delle acque reflue civili (materiale grigliato e fanghi di risulta).

Rifiuti pericolosi (RP)

Comprendono rifiuti che rappresentano un pericolo immediato, o nel lungo termine, per la salute dell’uomo e la vita animale e vegetale. Secondo la normativa italiana di riferimento (DPR 915/1982), questi rifiuti erano definiti “Rifiuti Tossico-Nocivi”. In seguito, con il Decreto Legislativo n. 22 del 5/2/1997 la dizione è stata modificata in “Rifiuti Pericolosi” che appare più appropriata anche in rapporto alla denominazione “Hazardous Wastes” attribuita dall’Unione Europea e dalla letteratura scientifica internazionale.

Si tratta in prevalenza di rifiuti di origine industriale, i quali presentano una o più delle seguenti caratteristiche di pericolo:

  • Infiammabilità (formazione di fiamma a bassa temperatura);
  • Tossicità/nocività/irritabilità (rischi per la salute acuti o cronici, conseguenti ad ingestione, inalazione, penetrazione  dermica);
  • Corrosività (distruzione di tessuti vivi);
  • Cancerogenicità (malformazioni cancerose);
  • Teratogenicità (malformazioni congenite, non ereditarie);
  • Mutagenicità (difetti genetici ereditari);
  • Infettabilità (malattie all’uomo ed altri  organismi  viventi  a causa  di microrganismi  contenuti  nel rifiuto);
  • Reattività (sviluppo di calore, gas tossici o altri prodotti pericolosi, a seguito di contatto con acqua, aria, altri rifiuti);
  • Esplosività (possibilità di esplosione per effetto di fiamme, urti, attriti).

Tra i composti che conferiscono carattere di pericolosità al rifiuto si citano a titolo di esempio  i seguenti (per un elenco completo si rimanda alla direttiva CEE 91/689 del 12/12/1991 relativa ai rifiuti pericolosi):

  • composti del cromo;
  • composti del berillio;
  • composti del nichel;
  • composti del rame;
  • composti dello zinco;
  • composti del piombo;
  • amianto (polveri e fibre);
  • clorati e perclorati;
  • PCB e PCT (PoliCloroBifenili e PoliCloroTrifenili);
  • composti farmaceutici e veterinari;
  • biocidi e composti fitosanitari (erbicidi, antiparassitari, ecc.);
  • sostanze infettive;
  • solventi alogenati;
  • composti organo-alogenati;
  • PCDD e PCDF (PoliCloroDibenzoDiossine e PoliCloroDibenzoFurani).

Ovviamente, il carattere di pericolosità del rifiuto dipende dalla concentrazione dei composti pericolosi. Per tale ragione vengono di norma definite delle concentrazioni limite (C.L.) oltre le quali il rifiuto viene definito “rifiuto pericoloso”. Inoltre, per rendere più semplici le procedure di identificazione dei “rifiuti pericolosi”, le normative emanate dai vari Stati prevedono un’elencazione di specifiche tipologie di rifiuti per le quali è generalmente dimostrato il carattere di pericolosità.

Ad esempio, sono considerati tali i seguenti prodotti (per un elenco più completo si rimanda alla direttiva CEE 91/689 relativa ai rifiuti pericolosi):

  • Prodotti farmaceutici, medicinali:
  • Biocidi e prodotti fitosanitari;
  • Inchiostri, coloranti, pigmenti, pitture, lacche e vernici;
  • Oli minerali;
  • Prodotti di laboratori fotografici;
  • Materiali catalitici usati;
  • Accumulatori di pile elettriche;
  • Prodotti isolanti contenenti PCB e PCT:
  • Solventi esausti;
  • Ecc.

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